La cronaca ci confronta quotidianamente con storie violente, con protagonisti ragazzi giovanissimi. Se lo sconfortante elenco dei fatti può indurci a credere che la violenza giovanile sia in vertiginoso aumento, in realtà questa è sempre esistita, anche prima che il bullismo avesse questo nome, che la diffusione delle nuove tecnologie creasse il cyberbullismo e prima che i media ribattezzassero le bande di giovani delinquenti “baby gang”.
Non tutti gli episodi hanno lo stesso peso, anche se ogni azione violenta, volta deliberatamente ad umiliare e danneggiare una vittima indifesa, non rientra affatto nelle “normali” manifestazioni d’aggressività in età evolutiva, ma è configurabile come un atto di bullismo o un vero e proprio reato.
Per tracciare un confine tra scherzi, anche pesanti, e prepotenze, le principali discriminanti sono lo squilibrio di potere e la condizione mentale della vittima: se la persona è in uno status di inferiorità psicologica, fisica o numerica rispetto agli aggressori e si sente offesa e prevaricata senza possibilità di reazione, non si tratta mai di un “gioco”, ma sempre di una forma di violenza.
Talvolta si parla a sproposito di “bullismo”, di fronte ad atti delinquenziali che, anche se compiuti da minori, sono gravi reati e segni premonitori di una personalità antisociale: provocare intenzionalmente serie ferite fisiche, molestare o abusare sessualmente, aggredire a mano armata.
Di fronte a queste situazioni, se non si agisce in modo tempestivo e mirato, a livello individuale, familiare, scolastico, e talvolta legale, si rischia di consegnare questi ragazzi ad un futuro criminale e le loro vittime ad una condizione di sofferenza duratura, senza possibilità di riscatto.
Per chiarirci le idee, vediamo meglio cosa sia effettivamente il bullismo e quali sono le condotte aggressive più diffuse in età evolutiva.
Bullismo
Non si deve parlare di bullismo per riferirsi a qualsiasi comportamento aggressivo tra giovani, ma solo di fonte ad episodi di prepotenza che abbiano le seguenti caratteristiche:
Intenzionalità: il bullo, o i bulli, agiscono con l’intenzione di prevaricare, umiliare e danneggiare la vittima, dunque si tratta di un’aggressione deliberata, non c’è impulsività, né la semplice reazione ad una provocazione;
Persistenza: sebbene anche un singolo episodio possa essere considerato una forma di bullismo, di solito si tratta di atti ripetuti nel tempo e con una certa frequenza;
Squilibrio di potere: esiste una disuguaglianza di forza e potere tra bullo e vittima, per cui uno sempre prevarica e l’altro sempre subisce, senza riuscire a difendersi. Per capirci, non si tratta di bullismo se due ragazzi di forza e status simili si insultano o si picchiano.
Le prepotenze possono essere di tipo fisico (spingere, schiaffeggiare, picchiare), verbale (deridere, offendere, minacciare) o strumentale (estorcere o danneggiare i beni altrui). Esistono poi forme di bullismo indiretto, più difficili da individuare, ma altrettanto dannose: diffondere pettegolezzi o calunnie, isolare, escludere dal gruppo di coetanei.
Il bullismo è un fenomeno di gruppo, i cui protagonisti non sono solo i bulli e le vittime, ma tutti i coetanei che assistono alle prepotenze, ridendo, incitando, o semplicemente non facendo nulla. Purtroppo, nei gruppi subentra un fenomeno noto come “diffusione di responsabilità”, per cui tutti si fanno scudo dietro la presenza degli altri e si sentono giustificati: lo facevano anche gli altri, era un gioco, pensavo sarebbe intervenuto qualcun altro, ecc.
Spesso, nessuno ha aiutato questi ragazzi a prendere consapevolezza delle dinamiche della violenza, della “banalità del male” e della responsabilità, individuale e collettiva, di fronte alle ingiustizie.
Cyberbullismo
Con la diffusione delle nuove tecnologie, la frontiera delle prepotenze si è allargata: telefonate, sms, mail, chat, social e siti internet sono i nuovi mezzi per mettere in atto le prepotenze. Parliamo di offese, pettegolezzi, molestie, minacce, creazione di falsi profili o furti d’identità, diffusione di foto o filmati umilianti.
Questo fenomeno ha assunto proporzioni inquietanti: chiunque, dietro allo schermo, si sente protetto, in diritto di dire qualunque cosa, esonerato da ogni responsabilità, non avendo davanti agli occhi la vittima e non dovendosi confrontare direttamente con la sua sofferenza. Così molti ragazzi “normalissimi” partecipano alle prepotenze con commenti, like o ricondivisioni.
Nella loro percezione, ciò che avviene online è meno “reale”, dunque tendono a giustificarsi ed autoassolversi, mentre le umiliazioni “cyber” perseguitano le vittime in una misura ancora maggiore, perché escono dal raggio d’azione del gruppo di bulli della scuola o del quartiere, diventando di dominio pubblico. La loro vita è così danneggiata, non solo nel qui ed ora, ma potenzialmente all’infinito, perché chiunque può accedere al materiale offensivo che la riguarda, commentarlo e ri-postarlo.
Revenge porn
Ragazzi e ragazze hanno oggi l’abitudine di condividere con il partner foto o filmati intimi. Quando la relazione finisce, per vendetta o per “semplice” esibizionismo, questo materiale può essere diffuso nelle chat di amici o sui profili social, ricondiviso da amici di amici, fino a diventare, in alcuni casi, “virale”.
I ragazzi devono essere informati che la diffusione online di materiale a sfondo sessuale, senza consenso dell’interessato, ed in ogni caso se questi è un minore, è un vero e proprio reato, che sussiste anche se a commetterlo sono minorenni. Se la persona ritratta è un minore, parliamo anche di pedopornografia.
La polizia postale può procedere alla rimozione del materiale incriminato, e al perseguimento giuridico dei responsabili, ma se le immagini sono state già ricondivise troppe volte, può essere difficile rimuoverle totalmente dal web.
Da un lato, è indispensabile rendere i più giovani consapevoli del rischio di consegnare in mani altrui, per quanto apparentemente fidate, immagini così intime, ma dall’altro deve essere chiaro che tutta la responsabilità è di chi le pubblica, diffonde e commenta.
Baby gang
Le cosiddette “baby gang” sono gruppi di giovani che si riuniscono allo scopo di compiere atti delinquenziali, in maniera più o meno organizzata. Queste azioni spesso hanno, come movente apparente, il semplice divertimento o il raggiungimento di piccoli vantaggi materiali, e questo le rende ancora più ripugnanti. In realtà, questi ragazzi si aggregano soprattutto alla ricerca di un’identità e di vissuto di appartenenza, a fronte di gravi carenze di personalità, di controllo familiare e/o supporto sociale.
Questi ragazzi possono appartenere a famiglie devianti, e in questo caso si stanno allineando ai codici delinquenziali del loro contesto di vita, oppure a famiglie “normali”, in cui emergono però, ad una attenta valutazione, una carenza di attenzioni e affetto, l’insufficienza di limiti e regole, di un adeguato sostegno emotivo o di una significativa guida morale.
Come distinguere un ragazzo violento?
Non tutte le condotte aggressive sono ugualmente gravi e devono suscitare la stessa reazione e preoccupazione. Nella “vera” violenza, viene meno la capacità mettersi nei panni dell’altro: la vittima è de-umanizzata, svilita, ridotta ad oggetto.
Per distinguere un ragazzo violento, da uno con qualche problema comportamentale o caratteriale, innanzitutto, bisogna valutare quanto la violenza sia un tratto stabile della sua personalità e quanto, invece, sia situazionale, cioè legata a particolari condizioni o frequentazioni. Un comportamento oppositivo e provocatorio in infanzia e la tendenza alla sistematica violazione delle regole e dei diritti altrui vanno sempre presi in seria considerazione, perché sono fattori di rischio per lo sviluppo di una personalità antisociale.
Giovani apparentemente “normali” che agiscono crimini brutali, come mostruosi automi travestiti da “bravi ragazzi”, manifestano sempre precedenti segni di squilibrio, che spesso vengono trascurati o sottovalutati dall’ambiente. Non siamo in presenza di disturbi psichiatrici acclarati, né di deficit intellettivi o di abilità sociali, ma piuttosto di carenze nella sfera morale e nella percezione dei limiti.
Questi ragazzi, purtroppo, non hanno imparato a riconoscere l’umanità in se stessi e negli altri, un’umanità fatta di bisogni, desideri, paure, credenze ed opinioni, che non sanno né a decifrare né rispettare. Sono intrappolati nella concretezza dell’azione, ciechi rispetto alle proprie dinamiche interne, schiavi dell’adrenalina, del bisogno di sopraffazione, privi di quella capacità immaginativa che consentirebbe loro di immedesimarsi nella mente e nelle emozioni altrui.
Quali sono le possibili cause e cosa fare?
Oggi si discute tanto di contenuti violenti, non solo in tv o al cinema, ma anche nei videogiochi e su internet. Sicuramente, essere esposti a tali immagini, senza la possibilità di attivare un filtro critico, può “normalizzare” la violenza e stimolare sentimenti e idee aggressive, ma il vero problema è a monte, cioè nella famiglia, nella scuola e nella nostra società.
Ci sono dei “contesti violenti”, in cui l’aggressività è non solo giustificata, ma anche premiata, o considerata l’unica alternativa possibile. Ma ci sono anche “buone famiglie”, in cui prevale un clima di rifiuto, ostilità, trascuratezza emotiva, in cui ai bambini non viene insegnato a gestire le emozioni nel solo modo possibile: all’interno di una relazione sicura con il genitore, in cui l’adulto faccia da esempio e modello e aiuti il piccolo a contenere i propri vissuti emotivi, a incanalare le pulsioni in modo costruttivo, a sviluppare quel tipo di pensiero che funge da tampone rispetto alle spinte istintuali, mediando tra le esigenze interne e quelle del mondo esterno.
Nelle personalità violente, abbiamo serie carenze nella capacità empatica, una dote fondamentale, di cui tutti nasciamo equipaggiati, perché iscritta nella nostra neurobiologia (e in quella degli animali più simili a noi). L’empatia è innata, ma ha bisogno di un contesto “sufficientemente buono” per svilupparsi: un ambiente caotico, rifiutante, ostile, con adulti non empatici, incoerenti, aggressivi, l’assenza di limiti e regole, un’educazione contraddittoria, troppo permissiva o inutilmente severa, sono tra le cause principali della sua assenza.
Questa sottolineatura dell’importanza della contesto familiare non vuole, in modo semplicistico, colpevolizzare i genitori, ma mira a riconoscere e restituire la centralità del loro ruolo educativo. Questi ragazzi, per quanto possano essere “corrotti” da una società violenta, del resto non più che in passato, non crescono certo sugli alberi, ma in una famiglia, che deve fornire loro gli strumenti per convivere civilmente con gli altri, e ove difetti ha bisogno di essere aiutata. Nessun bambino o adolescente può “salvarsi” da solo, bisogna prima di tutto aiutare gli adulti che si prendono cura di lui.
Anche la scuola ha un ruolo fondamentale: sono necessari interventi mirati, innanzitutto, a prevenire la violenza in tutte le sue manifestazioni, attraverso un’educazione al rispetto, ai sentimenti, alla “diversità”, alla consapevolezza dei diritti e doveri sociali. Inoltre, la scuola deve avere le risorse per contrastare la violenza quando si manifesta, attraverso procedure formali e informali per la risoluzione dei singoli “casi” e uno sportello psicologico permanente, anche in funzione anti-violenza, di cui molti istituti, purtroppo, non sono ancora dotati.
Bibliografia
- Cerutti R., Manca M. (2006), I comportamenti aggressivi. Percorsi evolutivi a rischio psicopatologico, Edizioni Kappa, Roma.
- Olweus D. (1993), Bullismo a scuola: ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti, Firenze, 1996.